Ennio Calabria, non ti insegnava come dipingere, ma perché dipingere. L’eredità di una ricerca che dobbiamo continuare
La morte di un personaggio speciale come Ennio Calabria consegna a tutti noi che per tanti anni lo abbiamo affiancato nel suo tormentato percorso di artista e testimone del proprio tempo un debito collettivo di riconoscenza difficile da saldare, che va oltre l’elaborazione personale del vuoto con cui da subito ci obbliga a misurarci, il calore degli abbracci con cui cerchiamo di darci conforto, il grumo amaro di lacrime e commozione che ci portiamo dentro, lo sconforto di chi ha perso un amico, un compagno di strada, una guida insostituibile.
È un tributo di gratitudine e di affetto che credo, spero, accomuni gran parte della comunità di pittori, esperti e amanti della pittura che per più di mezzo secolo hanno sfilato nel suo studio o lo hanno avvicinato in altre sedi chiedendogli e ottenendo giudizi, consigli, alcuni spesso, fin quando ha potuto, anche entrature e sostegno economico.
È stato un maestro davvero generoso Ennio Calabria. Chissà forse anche per compensare la poca generosità che concedeva a sé stesso nel tirare bilanci della sua carriera travagliata, sottovalutata e fraintesa.
E anche un maestro severo. Perché si poneva e ti poneva in continuazione domande. Non ti insegnava come dipingere. Ma perché dipingere: la disciplina dell’inseguire con segni e colori il senso stesso della vita e del mondo, penetrare il mistero del dare forma come chiave d’accesso all’infinito che si muove dentro e fuori di te.
Maestro di visioni e di parole Ennio Calabria. È questo il doppio debito che ci lascia in eredità. Ed in particolare assegna a chi di noi ha condiviso l’esperienza dell’Associazione “In tempo”, che aveva fondato e incalzava a manifestarsi, a prendere posizione.
Le visioni sono quelle dei suoi quadri che per decenni hanno registrato e catturato, spesso come inascoltate profezie di Cassandra, i messaggi d’allarme di invisibili mutazioni, insidiose derive, naufragi, spiragli di intraviste, possibili liberazioni.
Pochi artisti hanno saputo raccontare con tanta continuità e tanta efficacia il trapasso sociale, le svolte, le cadute dalla seconda metà del Novecento a questo inizio di Terzo Millennio. Anche se la critica più modaiola e il sistema autoreferenziale dell’arte hanno escluso e continuano a ignorare il suo nome tra i protagonisti del panorama contemporaneo.
La sua morte non può e non deve completare questo colpo di spugna. Dobbiamo impedire la dispersione delle sue opere, almeno quelle più importanti, e unire le forze per cercare occasioni e spazi per favorirne la lettura e la rilettura, opporre alla disattenzione scoperta, riscoperta e sorpresa, come è avvenuto nella preziosa recente antologica che Palazzo Cipolla gli ha dedicato. Aprire a questo scopo brecce nelle istituzioni che governano la circolazione dell’Arte. Un appello che rivolgo ai responsabili della imminente Quadriennale: perché non dedicargli per l’occasione un palcoscenico che documenti la sua presenza d’artista a Roma? Insomma continuiamo a fare cartello per valutare insieme come riaccendere i riflettori sulle sue opere e sulle tracce profonde che ha impresso.
Anche con le parole, perché il suo modo di usare le parole generava vibrazioni ed emozioni che restano cerchi di stimoli, che continuano ad allargarsi e non anneghino nella palude delle convenienze e del conformismo. Parole-visioni, appunto.
Ennio Calabria non era un filosofo, ma incollava ragionamenti, pensieri e osservazioni in un modo che raggiungeva la testa ed il cuore. Continuando a rivederli, aggiornarli, con un’ansia di dire, accresciuta dalla certezza di avere ancora poco tempo per farlo. Guidato non solo dalla conoscenza che aveva accumulato, e che per vezzo negava, ma soprattutto da una vorace curiosità e da un ipersensibile istinto.
Sono i mattoni con cui gli ho visto costruire in questo ultimo decennio un ponte di collegamento tra l’essere e l’esistere, le categorie della fisica e della metafisica, che molti intellettuali d’oggi farebbero bene ad attraversare senza sussiego per capire e farci capire dove siamo e dove stiamo andando.
Una linea di ricerca che non va interrotta e neppure congelata nel culto della sua straripante personalità, nella fragilità dell’assenza, del distacco e del vuoto che ora la sua morte ci impone. Una ricerca che noi che lo abbiamo accompagnato dobbiamo continuare ad alimentare di nuovi dubbi e nuovi confronti. Insieme. Tornando a sorridere della sua e della nostra debolezza, come succedeva alla fine delle nostre riunioni.
Danilo Maestosi