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Circolo Culturale Montesacro
Perché questi articoli
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Con l’idea di raccogliere una storia del “fare politica” nel corso degli anni ’80, abbiamo selezionato vari articoli di argomento diverso scritti da singoli aderenti, da gruppi di lavoro presenti nel Circolo Culturale Monte Sacro o da giornalisti che erano contemporaneamente membri dello stesso. Questi articoli, mentre riaffermano il valore del protagonismo, mettono in evidenza la dimensione onnicomprensiva dell’impegno politico di quegli anni, un impegno fondato sulla convinzione che ogni attività umana, anche quella più privata, celasse un risvolto politico e che la società, nelle sue diverse sfaccettature, costituisse il terreno primario dell’attività civile. Ne viene fuori, a nostro giudizio, un quadro d’insieme piuttosto interessante perché illuminante del costume e della cultura di quegli anni. Se le lotte sociali o il dibattito più generale hanno un certo rilievo nella selezione proposta, non mancano tuttavia studi economico sindacali e argomenti interni al dibattito in corso nella sinistra di quegli anni.

E’ sintomatico che il primo articolo (1979), firmato C.E. (Collettivo Edili), tratti di problemi operai mentre l’ultimo (1990) sia stato scritto da un collettivo studentesco e si occupi della fruizione gratuita degli spazi musicali da parte dei giovani. Senza arbitrarie generalizzazioni, questa particolarità potrebbe far pensare al lento venir meno della centralità operaia o agli effetti della controffensiva conservatrice iniziata alla metà degli anni ’70 e dispiegatasi compiutamente nel decennio successivo. Quella offensiva, non dimentichiamolo, aveva come obiettivo la sconfitta delle punte avanzate del Movimento Operaio, il ridimensionamento del Sindacato, la riaffermazione dell’invadenza partitica nella società civile. Anni amari quelli, anni in cui il craxismo, col suo intreccio tra affarismo e politica, l’esaltazione del disimpegno unitamente all’arrivismo e all’edonismo, la svalutazione dell’eredità antifascista e resistenziale, ebbe un ruolo decisivo. In quel generale ripiegamento, purtroppo, i limiti progettuali della sinistra sia istituzionale che extraparlamentare ebbero il loro peso, come non può essere ignorato che il terrorismo rese più grave l’involuzione politica e sociale nel nostro paese.

Gli anni ‘80 furono anche il decennio durante il quale si dispiegò la parabola del più grande Partito Comunista dell’Occidente: dopo il fallimento del “compromesso storico”, proposto nei primi anni ’70, la successiva tattica dell’austerità e dei “sacrifici”, collegata al sostegno della produttività non ebbe migliore sorte, incrinando la presa sui tradizionali settori sociali di riferimento. Il Sindacato, da parte sua, propose nelle fabbriche la linea dell’Eur o delle “compatibilità” che, intrecciandosi contemporaneamente alla violenta ristrutturazione del lavoro e alla riaffermazione del comando capitalista, non poteva non aumentare lo scollamento e l’incertezza tra i lavoratori. 

Quando alla fine il PCI si spese nel propagandistico sostegno alla lotta dei cassintegrati della Fiat, già fortemente isolata senza la devastante marcia dei 40.000 (impiegati, tecnici e capi), la sinistra scoprì che gli anni ’80 non erano passati senza conseguenze. Di questi temi negli articoli/lettere si può trovare tutto e, ovviamente, non abbastanza non essendo questi dei documenti di politica generale; tuttavia rileggendoli è piuttosto evidente in essi la descrizione del lento mutare dei comportamenti e della società. Per apprezzare la ricchezza e l’anomalia di quel lungo dialogare col pubblico dei lettori tramite la rubrica di un giornale, è necessario ricordare che allora si era già compiuto il rivoluzionamento dell’ informazione come strumento di formazione del consenso.

E’ stato un processo inarrestabile anche se pieno di contraddizioni. Infatti se il rapporto tra Potere e Informazione, inteso come controllo delle classi dominanti, fondato sulla mancanza di informazioni o sulla loro parsimoniosa diffusione andava rapidamente sparendo, contemporaneamente cresceva la raffinatezza nel subornare la popolazione con la loro manipolazione. Per questo, nel momento in cui la tradizionale stampa “identitaria” fondata sul carattere mobile è stata sostituita dalla composizione informatica, l’unico modo per riunire notizia e processo sociale e difendere la “veridicità” delle notizie, non poteva essere che quello di affidare la formazione del “racconto” alla partecipazione dei protagonisti dei “fatti”.

Oggi l’informazione si è trasformata ulteriormente: è diventata “fluida”, cioè plasma e si fa plasmare dalla società e, nella crescente dittatura delle notizie, solo l’ampiezza della loro diffusione insieme alla molteplicità delle “fonti”, può impedire che l’informazione si dissipi nella accelerazione del suo svolgersi. La stampa della sinistra (tra cui soprattutto “Il Manifesto”) ha sempre assicurato l’unità tra il fatto e i protagonisti, magari con qualche tratto di populismo e di unilateralità, mentre si cercava di far parlare chi voce non l’ha mai avuta (è la realtà di oggi a dispetto dei tanti reality televisivi) e si ribadiva che l’informazione non poteva spacciarsi come neutrale. Scrivere tutte quelle lettere significava operare per una stampa dalla parte delle classi subalterne e degli esclusi; inoltre sembrava il modo più dignitoso per smentire tanto il pregiudizio aristocratico degli illuministi che ebbero sempre in orrore i “gazzettieri”, quanto il disprezzo di Tolstoj per la stampa che egli definiva una “potentissima macchina dell’ignoranza” (Mario Lenzi: “il giornale”- ER).

Infine, in una epoca in cui la carta stampata poteva fomentare più di una campagna d’odio, ci sembrava un modo coraggioso per sottolineare che, nel capitalismo di fine secolo, la prospettiva di una informazione, espressione del dominio invasivo e salvifico del Quinto Potere, poteva non essere ineluttabile. Purtroppo il controllo crescente dell’editoria da parte del “mercato” ha esasperato nuovamente il processo di concentrazione delle testate che, dopo il secondo conflitto mondiale, sembrava definitivamente concluso con la comparsa della stampa di partito e d’opinione, origine di una salutare editoria diffusa. Se pensiamo che in Italia, più di ogni grande paese industrializzato, la percentuale di coloro che acquistano un giornale rimane drammaticamente bassa e declina l’identificazione degli strati operai e studenteschi con la stampa di sinistra, si capisce quanto l’informazione stia perdendo rilevanza e connessioni etiche con la società del nuovo millennio.

Oggi la galassia della carta stampata, in primis i quotidiani, soffre di una malattia mortale che ne mette a rischio la vita futura: quali le cause? Prima di tutto c’è il problema dei costi crescenti, poi il calo delle entrate pubblicitarie, che in passato hanno contribuito alla costituzione di una vera e propria casta, minacciate da monopoli televisivi come Mediaset. Se a questo aggiungiamo che l’ambito “pubblico” o istituzionale che i giornali avevano contribuito a creare e di cui erano diventati garanti si sta dissolvendo, il quadro è completo; internet da ultimo ha favorito, nelle nuove generazioni, un diverso accesso alle notizie anche dopo che i quotidiani sono approdati nel web. Il futuro della carta stampata è incerto come testimoniano le scelte prudenti ed attendiste compiute dalle grandi testate, condizionate più dalla pubblicità che dalla società civile, sempre più atomizzata e prigioniera del “presente”.

L’unica ricetta per una editoria nuova,“sociale” e protagonista di un possibile diverso ruolo del cittadino nella società moderna, sarebbe quella di fornire costantemente una notizia aderente alla realtà e, per quanto possibile, costruita o controllata dai protagonisti (la fortuna delle grandi rubriche di informazione televisiva come “Report” sta proprio nel mix: professionalità, trasparenza, contiguità con gli interessati). Negli anni in cui una stampa fondata sulla controinformazione sarebbe perfino temerario immaginarla, questa nostra piccola “memoria” ha quasi il valore di una testimonianza di archeologia sociale e politica.

 

 

 

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